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Il diavolo, il profeta, l'assassino
Prefazione dell’autore
La storia che ho raccontato è frutto della mia fantasia.
I personaggi, i nomi, le situazioni che descrivo non hanno nessun riferimento alla realtà. Ogni riferimento a nomi e fatti reali è da considerare casuale e non voluto.
L’elemento reale che innesca la vicenda è il famoso affresco in
cui è raffigurato Maometto che si può ammirare nella Basilica di San Petronio, a Bologna.
Vere anche le misure di sicurezza che negli ultimi anni caratterizzano
il perimetro della Basilica.
Un ringraziamento a due colleghi, Andrea Piselli e Riccardo Ciocca, esperti d’armi, che pazientemente mi hanno spiegato particolari tecnici utili per il mio lavoro.
Il mio modesto lavoro è dedicato a tutti gli uomini e le donne che ogni giorno e ogni notte sono per strada a garantire la sicurezza delle città.
Un pensiero affettuoso ai colleghi del mio reparto che hanno la pazienza di lavorare con me ogni giorno.
Massimo Fagnoni
Lo sbirro
Fermo sulla moto osserva il tramonto dalla collina, estate, calanchi bolognesi sotto i piedi e intorno fino a dove arriva lo sguardo. Il sole sta scendendo veloce dietro a quelle crepe di terra, a quelle frane di sassi.
Lui corre sempre nella sua giornata, fa tutto di fretta, mangiare, pensare, sempre proiettato in avanti, con il presente che gli scorre sotto come un tapis roulant.
La moto è calda d’estate e di una lunga corsa sulle colline.
Michele, la moto e le colline dietro, sembra una fotografia pubblicitaria, l’immagine della libertà.
Michele ha acquistato da pochi mesi questo vecchio Transalp.
Per 20 anni ha cavalcato solo vespe e biciclette, per i suoi primi 35 anni ha deciso di esplorare emozioni diverse, prima che qualche acciacco lo allontanasse dalle moto, per mesi ha cercato offerte su internet e visitato concessionari moto.
Voleva questa vecchia Honda indistruttibile e versatile e la voleva non troppo costosa. L’ha trovata di terza mano da un motociclista di Calderino, ha chiesto un prestito alla banca e adesso è un centauro, in realtà non si sente un veromotociclista, dopo venti anni di Vespa.
La moto gli piace da morire, ma è fuori di misura per lui, troppo veloce, troppo rumorosa, e pesante.
Non riesce a piegarla come vede fare agli altri motociclisti, monta il dignitoso Transalp come porterebbe la vecchia Vespa, velocità moderata, nessuna inclinazione in curva, molta prudenza.
E’ felice in ogni caso di questa novità e la gente che non lo conosce lo scambia per un veromotociclista, indossa una giacca di pelle nera, jeans, anfibi, casco integrale, occhiali da sole, i colleghi che non lo conoscono pensano sia uno tosto.
Michele domani lavora, esce in pattuglia, riprende il turno in quinta,mattino, pomeriggio, sera, notte, riposo, turno faticoso ma pagato bene.
Stasera guarderà un film, magari un poliziesco, una pizza e a letto presto.
Domani è un’altra giornata d’estate.
Marco corre regolare e uniforme come se dovesse percorrere tutta la ferrarese fino al mare, corre lungo l’argine del Navile e quando incontra una nutria o un fagiano urla per spaventare gli animali e liberare il sentiero.
“Le nutrie sono proprio bestiacce” pensa Marco e all’orizzonte della campagna vede solo orizzonte, nuvole rosse e solitarie che galleggiano alla deriva di una giornata climaticamente perfetta, 25 gradi, poche zanzare,
grazie ad una solida campagna contro la zanzara tigre, e un’aria pulita dai temporali dei giorni precedenti.
Marco ascolta in cuffia Ligabue che canta il giorno dei giorni e canta nella testa chiedendosi cosa avrà voluto dire con questa canzone.
Marco è poco complicato, pensa che lui l’ha già trovato il suo giorno dei giorni, è lì nella sua terra, dentro un corpaccione da vigile irrequieto.
Ogni giorno per lui è importante perché sa che 38 anni non torneranno e non avrà più la forza che adesso
sente schizzare dentro di sé.
Per Marco l’energia è bellezza, la coltiva, la coccola, perché vive di questo e di quello che riesce a toccare con il suo corpo, pensa che anche il Liga è uno forte e pieno di risorse, l’ha anche visto a concerto in un autunno caldo di qualche anno fa al Palamalaguti di Casalecchio, ma i concerti sono pieni di ragazzini e sono troppo caldi e puzzolenti per lui.
Lui preferisce la memoria del lettore mp3 che gli ha regalato Anna, la sua morosa, infermiera del 118 e grande forza della natura.
Marco corre e canta nella testa le canzoni che ha scelto di ascoltare, pensa alle nutrie che una volta avevano più timore dell’uomo, ormai non si spostano neppure se urli.
Aldo, un amico che si allena con lui in palestra, sa tutto delle nutrie e le uccide, gli ha spiegato, con la sua parlata allegra, veloce e un po’ nervosa, alcune cose sulle bestiacce: “Primo, per cacciare la nutria ci vuole un patentino, perché non puoi mica andare per la campagna a sparare a tutto ciò che si muove”.
“Poi vedi” gli dice ancora Aldo, “con il fucile da caccia non le ammazzi mica, hanno un pelo grosso che i pallini non passano, ci vuole la carabina”, poi si è avvicinato a Marco che stava sudando sugli addominali e con tono da cospiratore ha aggiunto: “Una volta ho incontrato una nutria con i piccolini, mi si è avventata contro, la zoccola, l’ho stesa a un metro da me, che aveva già sfoderato le zanne”.
Aldo è un gran parlatore, un fumatore incallito, esce dalla palestra per fumare, il suo mestiere è guidare gli autobus dell’Atc di Bologna.
Marco mentre suda e corre pensa che non gli piacerebbe guidare un autobus, non avrebbe la pazienza necessaria, è insofferente, ossessionato dalle interferenze e dai corpi estranei, le nutrie, i topi, gli extracomunitari.
La sua campagna ha un profilo differente, da un po’ di tempo Marco incrocia facce diverse la mattina, muratori nord africani o rumeni, prostitute senegalesi che tornano dai viali bolognesi dopo una notte di lavoro, pakistani o cingalesi che montano ciclomotori improbabili per dirigersi verso le loro occupazioni cittadine.
Marco non è contento di questa società sempre più composita, sempre più promiscua.
Sa di confusione, sporcizia, disordine e a lui piacciono le cose ordinate, il suo motto è un posto per ogni cosa e una regola per ogni luogo.
Fino a quando avrà i suoi spazi e lo lasceranno correre fra i campi di mais continuerà a trovare un motivo per alzarsi e andare a lavorare nella decadente Bologna.
Adesso rallenta sul limitare della pianura vicinissimo ad uno dei laghetti che servono per l’irrigazione dei campi, respira forte, muove le braccia, inspira…espira.
L’odore dei campi concimati arriva fino alle narici, fetore di letame, profumo fradicio di terra.
Qui è a casa, non teme alcun male.
Sente minacciato il suo microcosmo, sente in pericolo la stessa idea di spazio, perché immagina stranieri che non gli piacciono e sa che deve difendere il suo territorio, a tutti i costi.
Torna verso casa, idee, sogni, illusioni, poi, per fortuna precipita di nuovo con i piedi per terra.
“Che cosa vuoi difendere…” pensa, “qui non c’è nulla da portare via”.
Sorride nel sole al tramonto, in cuffia ascolta Ligabue che gli ricorda di mettere in circolo il suo amore…amore…chissà.
Il carabiniere
Il Maresciallo Greco è seduto dietro al suo personal computer e continua a scorrere un data base alla ricerca di un particolare che non gli vuole tornare in mente.
E’ un uomo attento Greco, non un genio ma una persona con una buona memoria fotografica e un discreto allenamento per la memorizzazione di dati.
Parla correttamente inglese e arabo, è già stato in Iraq con l’Esercito italiano, è arrivato là pochi giorni dopo l’attentato di Nassiriya.
Con il denaro guadagnato fino ad oggi si è comprato un camper ed una canna da pescama non ha ancora avutomodo di imparare a pescare, lui ama la caccia più che la pesca, la caccia ai cattivi. Non odia gli arabi, sono semplicemente la risposta alle paure dell’occidente, la conseguenza dei nostri peccati e vengono a chiedere a noi vecchi europei di pagare il dazio della nostra pigrizia e avidità, sono possenti gli arabi, non hanno paura di morire.
Greco li trova ottimi come avversari, a Bologna si annoia, arresta balordi, nord africani imbottiti della stessa merda che vendono, intossicati da bottigliette di nauseabonde bevande a base di frutta e alcool, islamici senza dignità, senza Dio, che si trascinano da un cascinale all’altro, vivendo di piccolo spaccio, nella sporcizia più totale e odiando la nostra vita e la loro stessa esistenza.
Ne arresta uno al giorno di cialtroni di questa specie e dopo averli intercettati trascorre il resto del giorno o della notte a compilare atti, a costruire prove per la direttissima del giorno dopo.
I suoi uomini sono in gamba e si accontentano dei risultati, che finiscono sui giornali locali e fanno statistica.
Il Questore è contento, il capitano è soddisfatto, i cugini della Questura rimangono al palo con la squadra antidroga e la concorrenza fa crescere i ritmi lavorativi.
Greco si annoia.
Sulla parete del suo ufficio qualcuno ha attaccato una pagina di Repubblica, con un titolo: INDULTO, sotto ha scritto a grandi lettere “no grazie!”.
Greco se ne frega della politica, lui lavora, fuma e simuove nel suo tempo, sempre alla ricerca di qualcosa che non riesce a definire, come una smania che lo prende, che riempie i suoi sogni e lo fa svegliare nel cuore della notte in un bagno di sudore.
Un fato, un appuntamento che non può mancare, forse un appuntamento con le risposte a domande che non si pone.
Dalle intercettazioni di un gruppo d’algerini presunti è saltato fuori un nome iracheno.
Greco crede di ricordare il nome di un terrorista iracheno che è scomparso dalle scene di guerra, mentre lui era ancora là. E’ vero?
Il suo intuito è proverbiale, e così la sua memoria, ma gli servono ad arrestare piccole carogne scabbiose che vivono di stenti e un terrorista lui non l’hamai neanche visto in cartolina.
In Iraq lavorava come interprete presso il Centro di comunicazione, non ha sparato neanche un colpo durante la sua unica missione.
Il naso da segugio l’ha sempre avuto e le inflessioni delle vocile conosce bene, sa riconoscere la paura e il rispetto e sa chechi parlava al telefono è un capo.
Coincidenze? Greco accende un’altra ms e ricomincia a consultare i dialoghi,mentre in cuffia suoni gutturali gli ricordano che i turchi sono alle porte.
Giulia
Giulia è un’insegnante delle scuole elementari Buzzati che sorgono dentro il parco della “Lunetta” a Bologna.
Giulia ha letto la storia del piccolo parco bolognese, una specie di delizioso giardino nel cuore borghese della prima periferiabolognese, cinque minuti dal centro. La Lunetta era un luogo dove furono installati cannoni a difesa della città nel 1860.
Lei insegna in quella scuola e segue due classi, insegnamaterie letterarie e condivide le classi con Laura, insegnante dimaterie scientifiche e matematiche.
E’ ancora estate, pensa, e guarda le luci delle auto oltre il disegno arrugginito del davanzale di casa sua.
Luci vicine e rumori di traffico, il traffico della domenica sera, la gente torna dalmare e va in pizzeria per un ultimo scampolo di libertà da lavoro e quotidiano.
Giulia sente nell’aria una voglia elettrica di uscire, di comunicare, di fare insieme.
Insieme a chi? “Sono rimasta sola, io e la gatta”, pensa e sorride quasi compiaciuta della sua inamovibile coerenza che a trentacinque anni la trova qui senza un uomo, senza una vita sociale a guardare la città procedere sotto il suo davanzale lasciando scorrere il proprio corpo da estate ad autunno senza il conforto di un uomo, senza la speranza di un figlio.
E’ sola, in questa città che apparentemente accoglie ma che abbandona in giro imbarazzanti solitudini.
Dopo la rottura del suo fidanzamento con Carlo, compagno di liceo, non c’è stato più un vero amore.
Carlo rimane il filo conduttore della sua vita.
Dall’adolescenza serena del liceo, agli studi meno sereni dell’università fino ai progetti matrimoniali.
Carlo è stato la scoperta del sesso, la consapevolezza dell’amore eterno, la tardiva esperienza del tradimento.
Due anni prima l’aveva trovato a letto con sua sorella Diana, la “sorellina” di venticinque anni, studentessa di storia.Questo accadimento sancì il crollo delle fondamenta della sua ragione di vita insieme alladeterminazione di chiudere con la sorella e con tutta la famiglia che sapeva, nascondendo colpevolmente la verità.
Giulia insegue questi torbidi pensieri e da un angolo oscuro dellamente compare la facciona buona e tonda del suo terapista che la scuote e le ricorda che deve allontanare memorie distruttive, fosse solo perché conosciute e inutilizzabili.
Giulia fa due passi e dal frigorifero raccoglie la bottiglia di limoncello e decide di premiare la sua capacità di sopravvivere ai piccoli orrori quotidiani con un bicchierino di liquore giallo, freddo e plasticoso, comprato per 5 euro nel negozio sotto casa.
In televisione scorre la consueta replica estiva della milionesima puntata di Colombo con uno sdrucito Peter Falk, che ha tutto quello che gli serve nella vita per essere felice: un cane, una moglie di cui cita i difetti, un impermeabile da barbone e uno splendido intuito investigativo.
Giulia sorride e progetta un abbonamento a Sky per il prossimo inverno insieme al proponimento di tornare in palestra a fronteggiare gli assalti della cellulite.
Domani è un altro giorno, pensa e s’immagina come in Via col vento sulla cima di una collina con un’improbabile Bologna ai suoi piedi.
Mohammed
Ore 22.10 ultima consegna: “Devo suonare Gandolfi, Via S. Donato 30”, così pensa il giovane pakistano, mentre percorre con il suoMalaguti Free Via S. Donato.
Dietro, nel contenitore termico sono alloggiate 4 pizze, due margherite, un calzone, una pizza con la cipolla.
“Saranno studenti universitari” pensa Mohammed, questo è un quartiere pieno di studenti, è vicino alla zona universitaria, ma nella prima periferia e gli affitti costano un po’meno.
Mohammed riflette con rabbia sui 250 euro che tutti i mesi deve pagare in nero insieme ai suoi connazionali per un lurido posto letto inVia Barbieri, strada piena di seminterrati e locu affittati ad extracomunitari come lui.
C’è un porco bolognese che ognimese si riempie le tasche del suo sudore, della sua rabbia, della sua fatica. Vive o meglio transita da unmini appartamento dove dormono in quattro, un loculo scarto dell’edilizia popolare, probabilmente subaffittato a loro da un losco individuo.
“Questa città è uno schifo e gli italiani sono razzisti e arroganti”, così ragiona e intanto suona da Gandolfi.
Apre un giovane biondo con capelli lunghi e ricci, sorride e chiede il conto. Dietro di lui luci soffuse, musica rock alta e odore dimaria. Il ragazzo paga e ringrazia,Mohammed scende le scale, è stanco e arrabbiato, sale sul ciclomotore scalcinato e torna verso la pizzeria del cugino,masticando odio e frustrazione.
Lungo la strada incrocia il bus che porta in periferia e lo guarda allontanarsi verso il Pilastro, al finestrino scorge una faccia scura e stanca come la sua, un altro straniero in terrastraniera che va verso un letto che non vorrebbe, verso una notte che non gli appartiene.
Ariman
Ariman si guarda nello specchio, controlla i lineamenti, i particolari, gli occhi, il sorriso. La sua identità è chiara, il suo aspetto squisitamente occidentale, una sana educazione anglosassone, le scuole migliori, una bella vita, una grande fortuna.
E’ stato adottato da una famiglia borghese londinese, e non sa nulla delle proprie origini, lontane, indiane probabilmente.
L’unica traccia delle sue radici è nel colore della pelle, una splendida e perenne abbronzatura, l’ha definita una volta un’amica occasionale.
Ariman abbraccia con lo sguardo la camera che lo ospita, grande, accogliente, con i soliti accessori degli alberghi e una finestra che si affaccia sul verde della prima periferia di Bologna.
Il sito internet dell’albergo recitava: Albergo 4 stelle, 10 minuti dal centro della città, circondato da verde e quiete.
In effetti, è proprio un bel posto, tranquillo, in Via Felsina, quartiere Fossolo, vicino ad un grande centro commerciale.
La vacanza italiana per un congresso internazionale, dedica ai nuovi percorsi tecnici per la sicurezza negli aeroporti, gli permette di trascorrere qualche giorno in questa piccola città.
Ariman è un bell’esemplare dimaschio, bellezzamediterranea, sorride della sua vita e prima di dedicarsi agli esercizi respiratori si appresta a fare una bella doccia purificatrice, le buone abitudini gli fanno compagnia.
1 Settembre
Venerdì
Pesce
Sorge il sole su Bologna, è il sole dell’estate, quello caldo, che scalderà il giorno della pianura e solleverà vapori dalle lunghe strade che portano verso la città.
Lungo la Saliceto s’incontrano occasionalmente cadaveri di piccoli animali, travolti da auto che tornano e da auto che arrivano.
Le gazze si posano come avvoltoi sui resti d’altri animali, strappano brandelli di carne e velocemente si alzano in volo per evitare le auto che passano.
L’estate è anche questa. Il Navile è in secca come molti fiumi e canali in Emilia, è stata un’estate spietata, la terra è dura, arida, alle prime piogge non riuscirà ad assorbire l’acqua, gli argini non ce la faranno a trattenere il fiume.
Lungo la strada che porta in città si scorgono uomini e donne che camminano piano, rasentando il ciglio dei fossi, hanno biciclette improbabili o ciclomotori fatiscenti con caschi improvvisati.
Sono molti, sono stranieri, vanno a lavorare in luoghi difficili da immaginare.
Alcuni si fermano prima, lungo la pianura.
Ai grandi incroci vendono il Resto del Carlino, fino alle nove, per diventare subito dopo lavavetri.
Questi lavoratori atipici sono soprattutto pakistani o bangladesi.
Tre giovani rom percorrono un rettilineo in sella a biciclette sicuramente rubate. Hanno facce dure, capelli rasati, sono scalzi, sporchi, ridono fra loro di chissà cosa, come giovani animali a caccia di qualcosa che non hanno ancora deciso, consapevoli della loro forza e della facilità di potersi muovere in un luogo così fragile, impregnato di regole che non sono le loro, di linguaggi che non capiscono e di una legalità tangibilmente fittizia.
Ridono e pensano a dove potranno oggi affondare le mani per rubare o per gustare ciò che il mondo circostante non gli vuole dare.
Poi c’è l’altra gente. Tutti si muovono, nelle loro macchinette, rigorosamente soli, in fila verso il capoluogo, procedono lenti.
La strada all’alba è congestionata.
Pensano questi emiliani? Qualcuno ascolta la radio e aspetta le 7 per i primi notiziari, per l’oroscopo della giornata che gli dirà se arriverà sano e salvo alla fine del giorno.
Qualcuno cerca di ricordare imaledetti numeri che ha sognato per scommettere sulla sua miseria e sui sogni di ricchezza.
Qualcuno pensa all’amore, al sesso del fine settimana, alla mangiata di pesce, alle gambe della cameriera moldava che serviva in quel ristorantino al mare.
Qualcuno pensa al lavoro che l’aspetta e che l’accompagnerà tutto il resto dell’anno fino alle prossime ferie, e al fatto che per quanto lavori non ce la fa ad arrivare alla fine del mese.
C’è chi pensa alle prossime ferie che per lui stanno per cominciare.
C’è chi è contento di andare a lavorare e non vede l’ora di cominciare ad immergersi nella propria occupazione.
C’è chi costruisce cose, vende frutta, trapana denti, arresta i cattivi, regola il traffico o scava buche lungo una strada.
C’è chi lavora in banca o dietro un computer in qualche grattacielo, e non vede l’ora di arrivare al lavoro per rivedere colleghi e amici e raccontare loro come sono andate le ferie.
C’è tutto un mondo all’alba che si muove verso la città, tutti dentro le loro automobili, puzzolenti di una benzina che costa sempre di più, verso una città che a fatica accoglie tutti quanti.
Marco guida l’auto piano, lungo la pianura, è in anticipo come sempre.Gli piace arrivare presto al lavoro, precedere i colleghi, cambiarsi con calma, radersi nello spogliatoio vuoto e gustarsi da solo il primo caffè della giornata leggendo le ultime notizie dal quotidiano locale.
Si avvicina alla città, pensa insieme a tutto il gregge in movimento.
Pensa al prossimo autunno che sembra lontanoma che arriverà fra pochi giorni.
Pensa alla maledetta nebbia che come ogni autunno lo aspetta nelle albe fredde e nei ritorni notturni e che deforma le prospettive.
La radio trasmette le ultime notizie, Marco ascolta distrattamente, venti morti in Iraq, un nuovo caso di stupro in città, la Corea sperimenta un ordigno nucleare, nuove minacce terroristiche rivolte all’Europa.
“Sembra tutto talmente remoto visto da qui” consideraMarco e intanto entra in tangenziale facendo lo slalominmezzo ai lavori in corso.
Michele sta finendo una relazione di servizio. La notte è terminata, il solito lavoro di controllo della zona universitaria.
Hanno arrestato un presunto palestinese, una specie di scheletro ambulante che da settimane dorme in giro per la città e che Michele conosce ormai bene.
Più volte lui stesso l’ha invitato ad andarsene da quella zona, non voleva portarlo in Questura, gli sembra una fatica inutile arrestare individui come quello, una perdita di tempo.
Ieri sera c’era in giro il capo della mobile, erano obbligatori i risultati, per i giornali, per il Questore. Raschid è finito dentro per pochi grammi di hashish che stava vendendo ad un coglione d’italiano.
Michele sbadiglia, le notti in bianco si sentono, soprattutto a quest’ora. Cominciano ad arrivare i colleghi del mattino, quando il quinto caffè ti procura solo acidità di stomaco e la ventesima sigaretta è quella che non volevi fumare perché lascia in bocca un sapore d’amara stanchezza.
La relazione è finita, accanto è seduta Mara, sua collega, bionda, magra, giovane e mai stanca.
Michele la guarda fra fumo e computer, spia i suoi capelli disordinatamente raccolti da un ciappo sulla nuca, gli occhi intenti a leggere qualcosa sul monitor.
Sembra ancora più giovane dei suoi venticinque anni, senza trucco, con quel viso così innocente e l’espressione determinata.
Michele la guarda, vorrebbe farle una carezza e dirle di andare a dormire, è la stanchezza che gli inietta in circolo torbidi pensieri.
In quella saletta, dove passano gli agenti delle volanti non c’è spazio per pensieri delicati, per momenti di tenerezza o per altre sciocchezze, quello è un luogo di passaggio dove vanno e vengono agenti da tutte le parti d’Italia, ragazzi piombati a Bologna perché sembrava la destinazione migliore in mancanza di un posto sotto casa.
Molti giovani meridionali sono scappati dal sud e da luoghi dove l’unica possibilità lavorativa è ancora la divisa, giovani che hanno scelto la legalità perché per loro è l’unica possibilità di riscatto.
Questo universo di divise blu si riempie come al solito dei rumori del cambio turno.
Dentro le celle dei fermati c’è un altro mondo separato e maleodorante, pieno d’extracomunitari che stanotte sono diventati statistica.
Le prostitute hanno incassato meno del solito e domani sera saranno di nuovo lungo la strada che porta a Modena.
Michele riconosce alcuni visi, fra i colleghi, ma non ricorda i nomi, è arrivata una nuova ondata di reclute da Roma e ci vorrà un po’ di tempo per conoscere i volti e associarli a nomi.
“Mara vuoi l’ultimo caffè?” chiedeMichele,mentre si avvia a fotocopiare le sue scartoffie.
Mara lo guarda con gli occhi socchiusi, come a fermare una parola, un concetto, e poi riesce a connettere di nuovo i pensieri, sorride stancamente e scuote la testa, “no grazie, voglio solo finire questo rapporto e andare a casa a farmi una doccia e a dormire, grazie lo stesso”.
Michele cammina stancamente verso la fotocopiatrice, la Beretta gli pesa sul fianco e la testa gli duole. E’ sempre più faticosa la notte, non è più la notte che trascorreva in giro con gli amici, quando a vent’anni era una sfida correre fino all’alba in cerca del nuovo giorno, in cerca di luoghi e di donne.
Dopo avere sbrigato le ultime praticheMichele si dirige al parcheggio della Questura, “oggi sarà una bella giornata di sole e non devo neanche andare alla direttissima”, riflette, gli occhi appiccicati dal sonno e l’aria fresca del mattino a fargli compagnia mentre con la moto percorre allegro i viali verso casa.
Prima di andare a dormire si ferma alla solita pasticceria a Porta S. Felice, dove acquista il migliore calzone di Bologna, che si mangerà prima di andare a dormire.
“Cosa c’è di più bello che andare a letto quando il mondo si mette inmovimento”, sorride,mentre parcheggia lamoto sotto casa e il suo ultimo pensieromentre ripone il casco è perMara e per i suoi occhi socchiusi.
Greco si ferma al bar che dista pochi metri dall’ufficio.
Lo conoscono tutti in quel bar, lì compra le sigarette e beve il primo caffè.
Questa mattina si è svegliato presto, come sempre.
Una sorta d’insonnia lo tormenta damesi, da quandoGabriella se n’è andata, senza un messaggio, senza un saluto.
La sua ultima sconfitta, il suo ennesimo fallimento come essere umano.
Beve il primo caffè, un bicchiere d’acqua lo aiuta a buttare giù un paio d’aspirine che spera gli fermeranno il preludio di una bell’emicrania.
Giorgio, il barista del Bar Colli, sa tutto di lui e delle sue emicranie, non gli rivolge parola, quando lo vede in queste condizioni, ormai lo conosce e si limita a sorridergli, scuotendo la testa.
Greco lo guarda da dietro gli occhiali da sole e nonostante tutto riesce ancora a sorridere, sente per il suo barista un’improvvisa fitta di affetto.
Giorgio è una parte della sua famiglia virtuale, simuove dietro al banco per servire altri clienti e li conosce tutti per nome, conosce le loro storie, le loro solitudini, i problemi familiari e sa sempre cosa dire, discreto e accogliente come un bravo terapista.
Greco frequenta questo bar, quando in zona ce ne sono altri frequentati da avvocati, magistrati e colleghi, ma lui non farebbe mai cambio con Giorgio.
Poco gli importa se quella diGiorgio è una gran professionalità che gli permette di ostentare un affetto per tutti i clienti che non è umanamente realistico.
Greco si accontenta della sua bravura e pensa che ogni mestiere di contatto come questo è una forma d’arte che solo i solitari come lui possono veramente apprezzare.
Greco cerca con lo sguardo il giornale di oggi e intanto pensa che così deve andare la sua vita.
Non sopporterebbe dovere rendere conto a chicchessia, dovere crescere unmarmocchio, preoccuparsi per la sua prima canna, per la prima fidanzata, o peggio avere una figlia da portare a scuola, da andare a prendere in discoteca la notte insieme con altri genitori, coglioni come lui a chiedersi alle 3 del mattino chi te lo ha fatto fare.
I racconti dell’orrore che intercetta talvolta dai colleghi sposati, da amici occasionali, gli rimandano un quotidiano dove non c’è spazio per l’individuo adulto in quanto padre, che diventa una specie di zimbello in balia di figli,mogli isteriche e in carriera con il proprio tempo vitale ridotto ad un ritaglio ridicolo e avvilente.
Greco sorride fra sé, non si vede proprio in quel ruolo tanto lontano da lui.
Lui è e rimaneGreco, per se stesso, per tutto ilmondo e l’unica cosa che sa fare in maniera appena accettabile è lo sbirro.
Così vive e così morirà.
Esce nel sole e attraversa la piccola piazza che lo separa dall’ufficio
e aspetta che l’emicrania lo abbandoni per riprendere a lavorare.
Il giornale oggi riporta gli arresti fatti dai suoi ragazzi nei giorni precedenti.
Compaiono le solite statistiche, i numeri, e i soliti disperati sottratti per pochi giorni alla strada. Lui vuole qualcosa di più, è troppo tempo che morde il freno.
Non ci sono reali emozioni, nulla degno di esseremenzionato e ricordato nelle lunghe sere d’inverno davanti ad una birra con i colleghi che sono i suoi amici, la famiglia, l’unico luogo dove tornare da tutti i suoi esperimenti esistenziali.
Vede davanti agli uffici Francesco e Pietro, due dei suoi ragazzi, i più fedeli e pazienti, che lo salutano sorridenti.
Avederli nei loro costumi di scena sembrano due fricchettoni, ma dopo quattro anni d’attività in borghese ormai a Bologna li riconoscono dall’odore.
“Ben trovati ragazzi, siete sempre sulla prima pagina del Carlino Bologna, sono o non sono un buon ufficio stampa? Quando sfonderete nel mondo dello spettacolo dovete prendermicome vostro manager, farete soldi a palate”.
“Maresciallo non vorrei trovarmi qualche fan sotto casa uno di questi giorni” risponde Francesco che in realtà si diverte un mondo a leggersi sul giornale, anche se le notizie sono sempre un po’ troppo gonfiate e trionfalistiche per i suoi gusti.
“Quando cominciamo a fare sul serioMaresciallo?” fa eco Pietro, che si annoia ad arrestare nord africani scabbiosi e puzzolenti.
“Adesso l’emergenza è questa, lo sapete” gli risponde Greco, “l’allarme sicurezza, il brutto negro che vende droga negli angoli bui, il marocchino che si ubriaca e violenta le inermi fanciulle italiche. Questa è la passione del momento. Noi siamo nel culo del paese, nel posto più merdoso dell’intera penisoletta, quindi dobbiamo fare legna su questi temi”.
Greco diventa retorico e ridondante quando è stuzzicato sugli argomenti caldi della sua professione,ma si capisce che anche lui è stufo di mangiare tutti i giorni la stessa sbobba.
“Andiamo in ufficio ad organizzare il lavoro di oggi, voglio farvi vedere una cosa”.
Le 8.30 delmattino. La città si sveglia, gira intorno alla piccola piazza dove lavora Greco. Vista dall’alto è già un brulicare di macchinette, biciclette, ciclomotori, motocicli, pedoni che si spostano da un luogo all’altro senza un comprensibilemotivo.
Giulia è sveglia da pochiminuti e sta guardando un vecchio telefilm in televisione.
Mia moglie è una strega s’intitola la serie.
Lei ricorda quanto ha invidiato da ragazzina quella strega.
Capelli biondi e un sorriso furbetto, si muoveva fra le pareti domestiche di un tipico appartamentino americano, finto come un cartone animato.
Le piaceva la streghetta per bene, sposata con un americano medio che cercava di destreggiarsi fra la sua vita da impiegato e la mogliettina stregonesca.
Avolte cerca di guardare i cartoni animati, quelli del mattino, che le ricordano la sua infanzia.
Adesso ci sono altri prodotti, più belli, più spettacolari,ma non c’è più quellamagia che la faceva rimanere inchiodata davanti alla televisione.
Ogni tanto si guarda un cartone di tre gemelle e una strega checostringe le tre bambine ad affrontaremondi e storie legate alla mitologia e alla leggenda, a volte riesce a distrarsi in questi momenti di regressione.
Sono solo attimi, la realtà è talmente piatta, la solitudine tanto tangibile che le sembra di non avere mai vissuto, di non avere mai amato.
Si stira voluttuosamente, si sente a suo agio nella maglietta della notte che ha disegnato sopra un Linus abbracciato alla sua coperta, dentro casa.
Sorseggia il caffè nero e abbondante come piace a lei, dopo avere bevuto un succo d’arancia, fuori è ancora una giornata di sole.“Oggi vado in palestra em’iscrivo,mi farà bene lo sento”, così rimugina Giulia e sa già in quale palestra andare, la “Vertigo” vicina a casa e molto attrezzata, insegnanti bravi, diversi corsi d’aerobica e step, sauna e tutti gli accessori indispensabili per rimettere in forma il proprio corpo.
Sullo schermo adesso scorrono le news, affiorano le solite cose, le consuete paure, si vedono file chilometriche d’italiani che stanno tornando nelle città, il governo deve varare la nuova finanziaria, il pericolo terrorista è alle porte e la scuola sta per ricominciare.
“Al diavolo tutti” pensa Giulia, “oggi ci sono solo io”.
Alle 11 del mattino Marco è di pattuglia in zona universitaria, oggi è insieme al collega Ferroni o Ferro come lo chiamano i colleghi, questa mattina la zona universitaria sembra proprio un luogo costruito per il suo scopo, l’apprendimento della conoscenza.
I portici di Via Zamboni sono gremiti di facce giovani e vecchie conoscenze.
I nuovi studenti li riconosci perché si aggirano spaesati fra le facoltà che li aspettano.
La pattuglia, lasciato l’ufficio di Piazza verdi, si aggira fra corpi giovani e abbigliamenti ancora molto estivi.
Gambe abbronzate di studentesse italiche sfilano davanti ai due agenti che guardano senza vedere, chiacchierando dell’estate, dei debiti, delle ferie e di quante femmine ci sono questa mattina in giro.
Si vedono i primi ladri di biciclette in Piazza Scaravilli, ricominciano a lavorare dopo le ferie, “chissà dove vanno in ferie i ladri di biciclette?” chiede Marco a Ferro, un po’ sogghignando un po’ sbadigliando nel sole caldo delle 11 di mattina.
“Andranno a casa da mamma e papà, visto che sono tutti italiani e tutti tossici” risponde Ferro che non sopporta nessuno dei suoi simili, soprattutto se non hanno una divisa e se sono tossicodipendenti.
Uno studente sta attaccando un volantino nel colonnato di fronte alla facoltà di Lettere e Filosofia, ma appena vede gli agenti si allontana con disinvoltura per evitare multe.
Le pareti del porticato sono completamente tappezzate di carta, un variegato collage di cercasi casa, offresi posto letto, offresaiuto, cercasi aiuto, vendesi tutto, concerti di gruppi sconosciuti, opere teatrali inedite, agenzie di viaggio per studenti, agenzie interinali, foto di laureati già festeggiati, che sono il passato, rimangono appesi con sorrisi indecisi, sguardi ubriachi.
Sui muri rimangono istanti congelati di momenti, di persone passate da quella strada, da quella città, dopomolti anni emolti vuoti sono tornati in luoghi impossibili da pronunciare, in province del mondo o dell’Italia dove andranno a lavorare in settori per i quali non avevano studiato.
C’è tutto un mondo attaccato a quei muri, un mondo che per Marco e per Ferro non rappresenta nulla se non un problema da affrontare tutti i santi giorni che gli capita di lavorare li.
Un punkabbestia con il suo incrocio di cane, un quarto pitbull, un quarto rottweiler, un quarto drago scorticatore vede i due agenti che si stanno avvicinando e velocemente mette il guinzaglio al cane.
Si conoscono i tre personaggi della scena.
“Lodi quante volte devo farti il verbale per quel guinzaglio che non metti al tuo cesso di cane?” dice Ferro, mentre comincia ad infilarsi i guanti.
“Scusi agente ha ragione, ma deve ammetterlo l’ho messo subito appena vi ho visto” risponde il ragazzo dall’età indefinibile.
Il suo viso è un’esplosione di acne, e un tappo di bottiglia fuoriesce da un enorme buco che il ragazzo si è procurato nel lobo di un orecchio.
Sorride cercando di apparire sottomesso emostra una bocca di denti gialli.
I suoi vestiti sono talmente sudici che la puzza di sporcizia si sente a un metro di distanza.
“Lodi, come te la passi?” chiede Marco, mentre indossa preventivamente i suoi guanti neri antitaglio.
“Bene agente, non mi buco da unmese, sono stato a casa in Puglia, e mi sono ripulito, sul serio agente lo giuro”.
“Potevi farti anche un bagno, puzzi come una cloaca, Lodi” gli dice Ferro e intanto tiene d’occhio il cane che in realtà sembra molto rilassato.
“Hanno chiuso il centro d’accoglienza per noi, agente, e non riesco a lavarmi da una settimana. Lo sapete per farsi una doccia alla Caritas bisogna mettersi in fila e negli altri centri non mi prendono con il cane”.
“Potresti ospitarlo tu alcuni giorni là in campagna eh Ramarro? Insieme alle nutrie e ai fagiani?” ride della sua battuta Ferro, trovandola molto divertente.
Ride con la sua voce profonda, fa paura, quando ride Ferro, è alto quasi due metri, con due baffoni sul viso tondo, grande, occhi azzurri, sembra un vigile d’altri tempi, ricorda uno dei vecchimotociclisti che facevano paura, quando ti guardavano.
Ride anche Marco della solita battuta di Ferro e del soprannome che gli ha coniato il collega e che ormai è diventato per tutti il suo secondo nome.
Lo chiamano ramarro, come certe lucertole che si muovono lente nel sole,ma più grandi delle lucertole, più impressionanti, oggetto di caccia di bambini sadici come lui quando era ancora un “cinno” magro con i pantaloni corti e le ginocchia sbucciate.
“Tieni quest’elenco di posti dove puoi andare gratuitamente a lavarti insieme ai tuoi indumenti” dice Marco e intanto cerca nella piccola sacca che porta in vita un foglio.
Finalmente lo trova e lo allunga al Lodi:“Vedi di andarci a lavarti perché sei in condizioni pietose, e lì ti lasciano portare il cane”.
“Grazie agente, ci vado subito, appena ho un momento” risponde Lodi.
“Che devi fare adesso che non può aspettare?Devi spacciare?”
gli chiede Ferro guardandolo dall’alto come per decidere come schiacciarlo meglio sul selciato.
“Ho smesso con quellamerda agente, lo giuro” risponde Lodi.
“Se avessi smesso non saresti qui, nella piazza più libera d’Italia, dove puoi trovare tutte le droghe che vuoi senza temere nulla” gli risponde Ferro e si volta per andarsene e mentre si allontana gli ricorda con il suo tono profondo e definitivo:
“Ti raccoglierò uno di questi giorni, o accoltellato o in overdose e il tuo cane finirà al canile municipale dove finalmente potrà mangiare regolarmente. E’ giusto che tu lo sappia, nessuno piangerà per te, tu sei solo un errore di calcolo”.
Marco sorride, segue il collega verso Piazza Puntoni e pensa che nelle parole di Ferro sta la cruda verità, nessuno piangerà Lodi, forse solo quei due “vigili” lo ricorderanno come non dimenticano tutti barboni che hanno fatto una brutta fine a Bologna.
Alla fine dei conti tutti passano da Piazza Verdi, tutti se ne vanno, inclusi i poliziotti, rimangono per sempre solo i barboni e i “vigili”, inconsapevoli testimoni dell’inevitabilità del tempo e della ciclicità della storia che rende tutte le zone universitarie, un posto alla fine del mondo, un ghetto dove perdersi e ritrovarsi, un luogo sinceramente evitabile.
Mohammed sta portando la sua seconda consegna della giornata, sono le 13.30 e in motorino sembra di essere dentro un ventilatore caldo.
Questa sera ci si trova a casa di Famir per pregare e per parlare di qualcosa d’importante.
Famir ha affermato cheMohammed èmaturo per diventare un uomo e per entrare nella storia.
Mohammed non ha capito, ma forse ha esagerato a sfogarsi con il cugino vomitandogli addosso il suo odio per l’occidente e per Bologna.
E’deluso da quest’avventura italiana, lui aveva sentito che qui si poteva lavorare e vivere in pace, si aspettava il rispetto degli altri, la gente in realtà lo guardamale, le persone sono scortesi con lui, la polizia lo controlla, le donne vanno in giro mezze nude senza degnarlo di uno sguardo, cammina nel mondo, invisibile come se non esistesse.
Oggi è una giornata umida e appiccicosa, Mohammed non è contento, tutto il giorno a portare pizze e la sera dopo la chiusura, la pulizia della pizzeria del cugino. La mattina presto ci sono i giornali da consegnare e da vendere ai semafori, lavora per pochi euro che gli bastano appena per il posto letto e il mangiare.
Alle 13.40 c’è poco movimento per strada.
“Questi italiani non sembrano mai veramente legati ai ritmi, al lavoro, al senso del dovere, sarà che sono mafiosi e ladri come dice sempre mio cugino” pensa Mohammed e mentre consegna l’ultima pizza della prima parte della giornata spera di potere riposare un paio d’ore prima di ricominciare a lavorare.
Un auto della polizia municipale lo affianca al semaforo e uno dei due agenti lo guarda con uno sguardo poco amichevole, così almeno pensa il ragazzo,mentre controlla di avere il casco allacciato. Mohammed guarda l’agente con la coda dell’occhio, vede occhi cattivi, sguardo diffidente anche se coperto dagli occhiali a specchio, l’autista è ancora più minaccioso, imponente, con due baffoni da domatore d’elefanti e duemani
grandi come badili.
“Sempre fra le palle questi maledetti vigili” pensa il giovane pakistano e un brivido lo attraversa nonostante i 33 gradi di oggi.
Marco e Ferro stanno rientrando al comando dopo una mattinata pigra e di normale routine.
Ferro guida e parla del piano traffico dell’assessore Bianchi dellaMargherita e sostiene che nella sua vita di bolognese non ha mai visto un piano traffico che avesse un senso o che servisse a risolvere i problemi della città.
Marco non lo ascolta, guarda la nuova rotonda vicino allo svincolo della tangenziale che dovrebbe agevolare la viabilità cittadina.
Vede tute arancioni muoversi intorno a ruspe, e a macchine cheMarco non riesce neppure ad identificare.
La città è piena di cantieri e i cantieri sono pieni di persone che lavorano, questo posto sta ancora cambiando come lui, la città cresce e Marco invecchia.
Un velo di leggera malinconia lo coglie di tanto in tanto, per tutta questa vita che vede scorrere intorno senza poterla consumare, senza riuscire a fermarla, sempre dietro a desideri inespressi,
o attività fisiche, come se bruciando calorie si desse un maggiore significato al trascorrere del tempo.
“Poi c’è questo lavoro, perché mi diverto ancora a farlo? Cideve essere un motivo che mi spinge ad andare incontro alla gente e alle cose di questa città come se volessi cambiarle come se avessi la pretesa di imporre delle regole. Chi sono io per imporre norme e sanzioni?”
Un’immagine chiude i suoi pensieri finalmente, un giovane pakistano o bangladese a bordo di un vecchio Free Malaguti con dietro il classico contenitore di pizze.
Il giovane è scuro di pelle, indossa sandali che lasciano scoperti dei piedi che avrebbero bisogno di una lavata, veste jeans bucati, luridi, una camicia a quadretti che un tempo era colorata e adesso è lisa e sporca. I lineamenti del giovane sono delicati e appena sottolineati dal colore scuro della pelle.
“Controllate i pizzaioli”.
Ricorda l’ordine del suo Ispettore capoMoranti.
Il Sindaco si èmesso in testa di contrastare il lavoro nero e l’illegalità, le pizzerie d’asporto in città sono in cima alla lista insieme ai cantieri edili.
Marco guarda il faccione di Ferro e gli chiede:
“Hai da fare oggi pomeriggio?”
Ariman sta entrando ora nel pala congressi, zona Fiera.
Sopra di lui sventolano le bandiere degli stati che contano.
Davanti alle porte d’ingresso, discretima attenti alcuni addetti alla sicurezza privata guardano da dietro i loro occhiali da sole, il fluire dei partecipanti al convegno.
Sono uomini giovani e vestono abiti scuri, di buona fattura, probabilmente dati loro dall’Agenzia, perché sono pur sempre abiti di lavoro.
Sotto le giacche si dilatano petti allenati in palestre ed è facile intuire il rigonfiamento delle pistole come erezioniminacciose perennemente ostentate.
Sono uomini giovani, ben pagati, che utilizzano la loro prestanza, la loro forza, e la loro età per controllare le cose, le proprietà, donne, bambini, capitali, immobili e mobili.
Si muovono da una situazione all’altra, fino a quando la loro prestanza lo consentirà, come indossatrici anoressiche che sfilano fino a quando sono abbastanza giovani e abbastanza magre.
Ex militari, ex poliziotti li dirigono.
Indossano tutti auricolari e chissà quante stronzate si raccontano fra loro nelle lunghe giornate d’osservazione, specie ad un convegno noioso e tranquillo come questo.
Degli addetti alla sicurezza ad un convegno sulla sicurezza.
Ariman sorride e pensa a quanti giovani come questi ha incontrato nella sua breve ma intensa carriera e quanti di quelli che ha conosciuto sono finiti male.
Troppi soldi, troppe tentazioni, troppo lusso da custodire, troppi rischi.
Alla fine sono loro imoderni mercenari della nostra quotidiana guerra globale.
Davanti all’ingresso ci sono alcuni senegalesi che vendono merce, borse e cinture contraffatte fabbricate probabilmente da laboratori cinesi.
“Questi negri…ancora una volta si piegano davanti agli occidentali per intascarsi le briciole della loro ricchezza” pensa Ariman con disgusto.
“Islamici della domenica, uomini senza dio e senza orgoglio, che lavorano in fabbrica durante la settimana e poi vengono a vendere robaccia durante i fine settimana davanti alle fiere dell’uomo bianco”.
Ariman vede, subito dopo l’ingresso, un piccolo uomo grassottello che ha un cartello in mano con il suo nome e sfoggia un sorriso diplomatico per il consulente emiliano alla sicurezza della sua azienda.
“Buongiorno Lanzarini”.Si presentaAriman in perfetto italiano.
Il piccolo uomo che indossa un elegante completoArmani su un corpo inadeguato a qualsiasi abito rimane come sorpreso dallo sconosciuto e sorride a sua volta nella direzione di Ariman:
“Lei deve essere Ariman Bane, benvenuto a Bologna, spero che l’albergo che le abbiamo prenotato sia di suo gradimento” dichiara Lanzarini.
“Il vostro paese non può avere nulla di sgradevole caro collega" rispondeAriman e preso sotto braccio il piccolo italiano si avvia con disinvoltura verso il vicino caffè.
Greco guarda l’orologio IKEA appeso sopra la porta del suo ufficio proprio sopra la fotografia di un giovane Steve Mc Queen, che lo guarda con aria di sfida sorridendo dietro ad un paio d’occhiali da sole.
Greco lo guarda un attimo e un po’ lo invidia, poi pensa alla sua fine e lo invidiameno,ma rimane sempre un suo fan inossidabile.
Ha visto tutti i suoi film, ha letto le biografie e non capisce perché ami tanto un personaggio che nella vita ha solo perpetrato l’autodistruzione.
Un pensiero, un’immagine, un film e Greco parte per una delle sue divagazioni, una delle piccole vacanze quotidiane dal computer, dalle statistiche dai guai.
Poi si riscuote, è passato l’attimo e tutto è durato il tempo di un pensiero.
“Francesco e Pietro potete venire un attimo da me?”
QuandoGreco usa la formula un attimo, si rischia di fare notte, e i ragazzi lo sanno bene.
Terminano ognuno di fare le proprie cose, aspettando un ordine perentorio.
Francesco sta riordinando carte d’interventi conclusi nell’ultimo anno, dal comando gli hanno chiesto i dati della loro operatività.
Questi impulsi a capitalizzare i risultati sono tipici di un’amministrazione distratta che insegue la miope chimera del controllo.
Francesco ama l’Arma, come qualcosa di realmente inconfondibile e inevitabile.
L’Arma è un’istituzione sopravissuta a se stessa, alla guerra, al fascismo e alla democrazia cristiana, una forza potente all’interno dello Stato, sempre al suo servizio, sempre o quasi, ragiona Francesco e un sorriso gli affiora in superficie e pensa “meglio con l’Arma che con Cosa Nostra”.
Lui vede i carabinieri come i moschettieri di Dumas, divise bellissime, cuore indomito e una fedeltà assoluta per i propri capi.
Francesco sente di nuovoGreco che lo chiama all’adunata e lo maledice sottovoce, con l’affettuosa insofferenza che riserverebbe ad un padre invadente.
Pietro è al telefono con Marco il suo amico vigile che gli sta chiedendo alcune dritte sul permesso di soggiorno e sulla comunità pakistana.
Marco è un poliziottomancato, pensa Pietro, la condanna peggiore per uno costretto a fare il vigile in questa città del cazzo.
Marco è uno bravo e spesso lo ha aiutato ad aggirare lemaglie di un’amministrazione tanto progressista quanto ottusa, due contraddizioni che insieme a tutte le altre stanno trasformando questa città in un monumento d’immobilismo.
“Marco c’è mangiafuoco che mi sta chiamando all’adunata, ti telefono dopo, se sopravvivo al suo ordine del giorno, ok? Un abbraccio, dimenticavo, vieni in palestra questa settimana? Perfetto allora ci vediamo là, stai tranquillo, per quella cosa, ci sentiamo dopo”. Pietro appoggia il telefono, si stira e si alza dalla scrivania con lentezza calcolata.
Ha ancora i postumi di una piccola contratturamuscolare causata da uno sforzo eccessivo in palestra.
Pietro è giovane, scuro di carnagione, come la sua terra, la Sicilia, capelli e occhi neri, fisico atletico e forte, si muove nell’ambiente circostante come se fosse il salotto di casa sua.
Percorre i pochi metri che lo separano dall’ufficio di Greco e guardandolo minaccioso gli si para davanti:
“Se devi fumare vai fuori della stanza, altrimenti io non ce la faccio a sopportare te e le tue sigarette insieme”.
Greco neanche lo ascolta e continua a fumare e a guardare nello schermo del suo personal computer.
Poi realizza l’ultima frase di Pietro, spegne la sigaretta in un posacenere a forma di pitale che ha davanti a sé.
Alza le mani in segno di resa.
Entra Francesco e senza dire nulla spalanca ancora di più le finestre dell’ufficio per sottolineare la disapprovazione al capo per il suo stile di vita.
Dopo questa entrata plateale, che si ripete tutte le volte che i tre cominciano a ragionare intorno ad una qualsiasi questione,
Francesco e Pietro si avvicinano alla scrivania di Greco e attendono.
“Sto ricontrollando da due settimane i contatti avuti con i nord africani che gestiscono il piccolo spaccio in città, stavo cercando di riordinare le informazioni per organizzare un nuovo data base, numeri di telefono, nomi, capi, ho riletto tutte le traduzioni delle intercettazioni telefoniche, fino a quando ho trovato un’informazione interessante che era passata in secondo piano durante l’ultimo arresto”.
Greco armeggia con il computer, apre il programma d’intercettazioni telefoniche e accende l’audio:
“Ascoltate il dialogo fra i due africani e soprattutto leggete la traduzione sotto” dice Greco e fa partire la registrazione della telefonata.
Due voci concitate dialogano e contemporaneamente nel monitor del PC compare il diagramma delle voci che simuovono verde sul nero dello sfondo stringendosi o allargandosi secondo l’intensità dei suoni.
Sono voci dure, con suoni diversi dalla lingua occidentale, frasi soffiate, parole storpiate, una lingua distante da quella di chi la ascolta, due universi e culture inavvicinabili, così rimugina
Francesco e si chiede se ha un senso fare un corso di arabo, imparare una lingua che non gli piace.
“Mustafà sono io, al solito posto questa sera alle 22.00 non mancare è giunto il momento della preghiera”.
Dall’altra parte, una voce più profonda, sgraziata irrompe dagli altoparlanti del computer:
“Abbiamo un nuovo fedele, sarà lui che troverà la luce, non lo sa ancora, ma stasera lo scoprirà”.
“Non parliamo ora” risponde il primo, “ci sarà tempo e luogo, a stasera”.
“A dopo fratello” termina il secondo.
“Cosa ne pensate?” chiede Greco troncando l’atmosfera.
“E’ nuova questa telefonata, io non l’ho mai sentita prima” esordisce Francesco e dietro di lui annuisce Pietro a rafforzare quest’affermazione.
“Infatti, fa parte di una serie d’intercettazioni che sta portando avanti la sezione investigativa della poliziamunicipale che collabora con noi nelle indagini sulla microcriminalità nel quartiere Bolognina dietro alla Stazione, questa mattina Mazzanti il collega della P.M. ha intercettato questo breve scambio e appena avuta la traduzione ha pensato di segnalarmela, devo anche aggiungere” continua Greco “che avevo già notato alcuni dati curiosi nelle ultime intercettazioni, un rituale sempre identico nelle convocazioni alla preghiera, una puntualità nelle telefonate e alcuni nomi, falsi ma ricorrenti, nelle telefonate, uno di questi signori usa termini e frasi che ho già letto in memoriali dell’antiterrorismo israeliano, sarà un caso, saranno dei cretini, ma tutte queste coincidenze mi hanno incuriosito, lo sapete che mi fido molto del mio istinto”.
Li guarda, si gratta un pensiero inmezzo ad una testa di capelli indefinibile ed estraendo una sigaretta da un pacchetto stropicciato sorride, come un bambino che ha trovato il nascondiglio della marmellata.
Francesco si siede, lo guarda attentamente come a cercare di capire da quale parte deve schiacciare l’interruttore e poi guarda Pietro e senza parlare gli indica una sedia invitandolo in silenzio a sedersi.
Pietro sorride, prende la sedia vicina si siede e guardando Greco comincia a parlare:
“Non vorrai farmi credere che siamo davanti ad un nucleo di Al - Qaeda?”
“Io non ti voglio fare credere nulla, questi potrebbero essere dei testimoni diGeova, per quello che ne so e anche il collega della P.M. non ha idea,ma a calare si fa sempre in tempo, non credi? Questa volta la gestiamo noi l’informativa, lo sappiamo solo noi e i colleghi della sezione giudiziaria della P.M. di Bologna, quindi andiamo avanti fino a quando non ne sapremo di più, ne ho già parlato con il Capitano Fresi e lui è d’accordo”.
Francesco rimane a bocca aperta e guarda prima Greco e poi Pietro.
“Maresciallo, noi non abbiamo l’organizzazione per seguire un’indagine d’antiterrorismo, non abbiamo abbastanza uomini e dovremmo trascurare tutto il lavoro di routine”.
Vorrebbe continuare a porre dubbi Francesco che agita le braccia e s’infervora verso Greco.
Greco lo interrompe con un gesto esplicito della mano: “Non saremo soli, ci aiuteranno alcuni agenti della P.M. mettetevi a ridere, sono perfetti, insospettabili, sconosciuti, obbedienti e umili, il Comandante della P.M. è entusiasta, finalmente un incarico che fa contenti tutti, avremo a disposizione quindici agenti che penderanno dalle nostre labbra e tutto il merito lo prenderemo noi, se va bene sarà la gloria, se è un buco nell’acqua ci farà lo stesso crescere”.
“Allora che ne pensate, siete eccitati o no?”
Ride Greco.
Gli altri due lo squadrano attoniti, poi si guardano e cominciano a ridere anche loro come ad una festa, come dopo una barzelletta esilarante, come solo gli amici riescono a ridere, inquell’attimo di pura gioia hanno già vinto, hanno sgominato una rete di terroristi, ricevuto un encomio, avuta una promozione.
E’un attimo poi rimangono ancora in silenzio a guardarsi perché sanno che adesso dovranno cominciare a lavorare e a pensare e a spiare e una gran corsa li aspetta, una gran fatica senza nessuna vera certezza.
La palestra dista pochi minuti da casa.
E’ di nuova concezione, con una reception che sembra quella di un grande albergo.
Dietro al bancone una ragazza abbronzata artificialmente sorride professionalmente a tutti i nuovi arrivati, disponibile, gentile e finta come tutto quello che la circonda.
Giulia passa la sua tessera magnetica nell’apposita fessura in questomodo la ragazza dietro al banco convalida l’entrata e ti permette di entrare nella zona degli spogliatoi.
Dentro, la palestra, è maestosa, pulita, metallica e nella giornata di fine estate relativamente vuota.
Alcuni culturisti si allenano con la consueta forsennata energia, sudando dentro i propri asciugamani emostrando senza ostentazionemuscoli gonfi di vene e reale fatica per quello che è un lavoro a tutti gli effetti anche se senza reali prospettive di guadagno.
Giulia non ama i culturisti, troppo gonfi, troppo ineleganti nei loro corpi intrappolati e sgraziati che simuovono con una forza che non ha nulla di potente, nulla di reale.
Giulia si dirige ai tappeti mobili e comincia una leggera corsa di riscaldamento, le piacciono i percorsi simulati, può scegliere di correre lungo un piano che poi improvvisamente si alza per scendere a valle, immagina una vera corsa lungo colline senza lo smog della città, nell’aria climatizzata della palestra dimentica il mondo reale.
Mentre sbuffando si accinge ad entrare nel decimo chilometro di corsa, lo intravede nell’attimo in cui entra nella sala pesi per dirigersi verso i tapis roulant.
Di una bellezza particolare, scuro ma non di sole, comprende che quello è il colore della sua pelle.
Si materializza, alto uno e novanta, slanciato, conmuscoli elastici e tonici, simuove con un’eleganza neimovimenti unita ad una forza che traspare dal suo modo di muovere il corpo con una tranquillità che dà un’idea di sicurezza ed equilibrio fra corpo e mente.
Giulia non ricorda di avere incontrato un uomo così attraente da tempo.
In palestra passano diversi esemplari, tutti in gran forma, ma questo è certamente un animale interessante.
Giulia sorride, mentre si ascolta ragionare in quel modo.
La sua vita è stata ordinaria fino alla noia per gran parte della sua durata.
Ha ricevuto una scossa tremenda improvvisamente e senza avvisaglia.
Ora sta attraversando il tempo e lo spazio senza attese, senza speranze e nonostante sia ancora abbastanza giovane e sufficientemente attraente non si cura di guardare gli uomini con pensieri o desideri.
Oggi sta accadendo qualcosa, che non capitava da mesi.
Non è solo merito del maschio di turno, forse è un segnale di guarigione, di risveglio, dal torpore che la pervade ormai da troppo tempo.
Ariman entra nella palestra, e rimane stupito dalla splendida disposizione di macchine e attrezzi.
“Questo è un buon posto dove allenarsi” pensa, “ho fatto bene a lasciare il convegno, per dedicarmi al mio corpo”.
La vede, mentre cerca di decidere cosa fare per riscaldarsi i muscoli.
Vede una donna che suda sul tapis roulant, non è una ragazzina, ma in forma, è una tipica bellezza mediterranea, ma non troppo, con una coda di capelli castani ad incorniciare un viso tondo e attraente, occhi grandi e verdi e un corpo sinuoso che muove veloce correndo lungo un immaginario percorso.
Non cerca distrazioni Ariman, non ha particolari desideri in questo momento della sua vita.
Lascia in ogni modo che il destino decida per lui e comincia a correre sul tappeto vicino a quello della donna.
La sera arriva sulla città a concludere un venerdì di fine estate.
Il tramonto dolcemente si diffonde sul centro della città, i tetti rossi sembrano bruciare nel sole, in periferia, dove tutto sembra più irreale, scivolano poche comparse,muovendosi furtive fra le ombre gettate dai palazzi scrostati.
I due agenti della municipale escono dalla Questura di Bologna.
Il giovane pakistano li guarda,mentre si dirigono verso la loro auto ridendo di qualcosa.
Pensa che forse ridono di lui e del pomeriggio che gli hanno sottratto, tenendolo segregato in quel luogo sporco e maleodorante.
Adesso Mohammed ha in tasca un decreto d’espulsione, e la certezza che lo arresteranno, quei due maiali, se l’incontreranno fra cinque giorni.
“Ci volevano questi due a rubarmi tempo e speranza”.
Mohammed pensa al ciclomotore che non ha più, che gli hanno portato via con un carro attrezzi giallo, perché lui non ha nessuna patente.
“Come posso avere la patente, senza permesso di soggiorno?” Adesso appiedato aspetta che suo cugino lo venga a prendere per riportarlo alla pizzeria.
Marco ride di gusto insieme al collega che lo maledice sotto i baffi:
“Tutte le volte mi freghi in questo modo, ma era necessario trascorrere il pomeriggio in questo posto schifoso?” Ride Marco: “Senti Ferro se non fosse per me, non potresti avere queste elettrizzanti esperienze interforze, non potresti immergerti nella realtà della globalizzazione”.
“Puzzava quel pakistano di sporco e delle spezie che si mangiano a tutte le ore, e puzzavano tutti la dentro, io non ci trovo un senso in tutta questa perdita di tempo”.
Ferro apre lo sportello della Punto di servizio e guarda un riflesso di luce rossastra che sta calando dietro la Questura.
“La giornata non è finita, rientriamo che mia moglie non ci sperava più nella nostra cena, stasera, le ho promesso una cena di pesce a Rimini, abbiamo prenotato due settimane fa, non me la voglio perdere”.
Così dicendo mette inmoto e accende le luci di servizio per dirigersi velocemente verso il Comando.
“Avrai la tua cena di pesce” grugnisce Marco, guardandolo, appena preoccupato dalla spinta con la quale Ferro è partito “se non ci schiantiamo a Porta S. Donato”.
“Tu mi fai la cortesia di terminare tutto il lavoro con le carte e le altre menate, per favore?” gli chiede Ferro, mentre sfreccia in una Via Indipendenza semideserta.
“Faccio tutto io, non ti preoccupare, stasera non avevo impegni particolari, tu poi mi fai sapere come hai mangiato e quanto hai speso”.
“Affare fatto” gli risponde Ferro, e già si vede all’orizzonte il profilo di Porta S. Donato in un tramonto che sa di mare.
Giulia eAriman escono insieme dalla palestra, parlano e sorridono.
Giulia non pensa, come se non avessemai sofferto, come se la sua vita non avessemai subito battute d’arresto, si lascia andare negli occhi dello straniero, nel suo italiano senza inflessioni, che ogni tanto lascia sfilare tre le maglie delle parole, un accento diverso, la sua vera lingua rimane sullo sfondo, lei è grata allo sconosciuto della sua perfetta conoscenza dell’italiano, e come ipnotizzata lo ascolta, mentre la invita al mare a mangiare il pesce, sulla sua automobile nera, cromata, noleggiata per la sua permanenza a Bologna
Ariman le parla con voce calda e sente il potere uscire dalle sue parole, dalla sua bellezza, dall’ostentazione del proprio benessere.
“E’così facile sedurre”, pensaAriman, basta scegliere l’obiettivo giusto, creare la giusta atmosfera, capire i bisogni, gli esseri umani sono talmente prevedibili e le donne non fanno eccezioni, questa donna italiana, era sola in palestra, invece di addormentare un neonato, o di essere in giro in moto con un uomo, era lì a smaltire calorie in eccesso o dilemmi non risolti.
Era lì per lui e non lo sapeva ancora, nessuno sa mai cosa sta rincorrendo,ma si predispone ad incontrare il proprio destino.
Ariman si sente diverso, lui ha un destino scritto da altri, la differenza è solo una questione di prezzo, parla con Giulia, la circonda con frasi che per lui non hanno significato, le trasmette un calore che lui non sente, si diverte di come questa donna si lasci portare lontano, dove c’è un lieto fine o perlomeno un poco di dolcezza dopo tanta solitudine.
Sono le 21,00 trascorse da pochi minuti e nella cantina di Famir cugino di Mohammed è caldo, sono in cinque, seduti nella penombra di una luce fioca che proviene da una lampadina incrostata che pende tristemente al centro della stanza.
Non sono tutti pakistani, pensa con fastidio Mohammed, e guarda di sottecchi un uomo butterato che sicuramente è nord africano, probabilmente algerino.
“La prudenza non è mai troppa”, dice Famir, “i fratelli hanno fallito, come tutti sappiamo, alcuni mesi fa, ancora rimane lo scempio della stupidità degli occidentali ad offendere il Profeta, ancora dobbiamo subire l’arroganza della Chiesa di Roma che nella basilica bolognese mostra l’immagine del Profeta seviziata e offesa nel loro inferno, a nulla è servito minacciare, sappiamo che la chiesa non farà passi indietro e non cancellerà l’offesa. Dobbiamo essere noi a lavare l’onta”.
Mohammed guarda suo cugino, che gestisce una piccola pizzeria d’asporto e ricorda ancora le parole di suo fratello: “Famir è la tua possibilità, lui in Italia si è integrato, lì avrai la grande occasione di cambiare la tua vita e anche la nostra”.
Mohammed pensa a suo fratello e una lacrima scende dai suoi occhi andandosi ad incontrare con il sudore e la sporcizia di una giornata da dimenticare.
Lui è lì, con la sua piccola disperazione, in una lurida cantina bolognese, ad ascoltare dei fanatici di una cellula d’Al -Qaeda.
Forse sono solo dei mentecatti, o forse è solo un brutto sogno pensaMohammed e tutta la rabbia delle sue giornate bolognesi sfuma negli sguardi allucinati delle quattro persone che lo circondano.
Famir non sembra vederlo nel momento in cui si concentra su di lui:
“Adesso entri in campo tu, sei appena stato schedato dal loro maledetto regime, ma hai una grande opportunità di brillare nel firmamento del nostro radioso futuro e pulire l’offesa con il sangue di molti occidentali, tu sei il prescelto, o parlato con il nostro collegamento inglese, sono tutti d’accordo, sei giovane, puro, arrabbiato e offeso, hai la grande opportunità di vivere, morire e trovare nelmartirio l’unico paradiso possibile”.
Mohammed sente la nausea forte che arriva al termine di una giornata da dimenticare, non vuole vomitare il suo sconcerto, la paura, lo stupore, la profonda delusione e la consapevolezza di essere circondato da pazzi che vogliono la sua morte.
La nausea monta come un’onda inarrestabile, come un uragano inaspettato, come il crollo di una palazzina.
Mohammed si guarda intorno, con occhi disperati d’animale braccato, individua, con la coda dell’occhio un lavello, incrostato e lercio ma abbastanza vicino e si lancia verso quella macchia bianca della stanza dove finalmente può liberare stomaco e testa.
I presenti lo guardano stupiti, poi ridono di gusto, come davanti ad una scena divertente, come si ride dei giochi di bambini, come i veterani ridono dei pivelli,Mohammed sente lontane le loro risate,mentre si lascia sprofondare nel senso dimorte che si prova, quando il proprio stomaco decide di espellere l’anima.
Marco esamina il proprio orologio d’acciaio, ricordo di un amore che non c’è più, rammenta vagamente la donna che gli fece quel dono, un orologio senza limiti per un uomo senza confini recitava il biglietto d’auguri della gentile ragazza di turno.SorrideMarco di fronte all’infondatezza delle informazioni.
L’orologio ha già subito un paio di riparazioni, a causa di limiti oggettivi che nella pubblicità non eranomenzionati, i suoi confini, invece, sono tanto labili quanto definitivi, come la campagna che circonda la sua casa, come la nebbia che circonda la campagna.
Marco è come un Setter che aspetta nel parco di casa sua che il padrone lo porti a caccia di fagiani.Ha un grande parco dove scorazzare, pasti completi e un padrone gentile,ma è pur sempre dentro un recinto, quello della sua testa.
Si stira soddisfatto, e rilegge la relazione di servizio.
In ufficio stasera c’è pocomovimento, colleghi di pronto intervento transitano da lì per un caffè o per andare in bagno, le radio gracchiano e inviano pattuglie verso locali rumorosi.
Oggi ha bruciato due ore di straordinario e non ha nessuna voglia di tornare a casa, vaga con ilmouse nella rete, legge pigramente un quotidiano locale online, consulta il proprio estratto conto per vedere se lo stipendio è già entrato e decide che internet gli manca solo quando non può usarlo.
Gli piace l’ufficio in questi momenti, la sera tardi, quando i giochi sono fatti, i cattivi in guardina, le relazioni concluse, gli infortunati refertati e l’adrenalina è scesa nel proprio cassetto mentale.
Chi sa veramente quanta adrenalina può scorrere nella testa di un agente?
Che ne sa il cittadino di quanta adrenalina fluisce nelmomento in cui arrivi sull’incidente e il sangue è lì sul selciato nelle sue molteplici composizioni artistiche, inmontagnette solide come marmellata o ancora tutto distribuito sul viso di un minorenne senza casco, che i genitori non hanno ancora deciso di andare a cercare sul telefonino?
Tu arrivi, sirene spiegate e puoi solo fotografare la tragedia vite che scivolano altrove, con gesso, foto emetro,misuri la distanza che intercorre fra un ritorno dal mare e la sala rianimazione di un grande ospedale.
Quanta adrenalina scorre, quando devi portare via lamoto appena comprata al giovane romagnolo che zigzagava in Strada Maggiore tanto ubriaco e tanto grosso da non comprendere perché lo stai fermando.
SorrideMarco e si accarezza la piccola cicatrice sotto ilmento, che gli ricorda di non avvicinarsi mai troppo quando chiedi i documenti ad un camionista ferrarese che ha appena litigato con sua moglie al telefono.
Rimane una piccola cicatrice, qualche migliaio d’euro di danni e qualcosa da accarezzare nei momenti di riflessione.
E’ ora di tornare alla sua campagna, è quasi notte, e il suo primo venerdì della nuova stagione è terminato.
Domani è sabato e mentre chiude le luci dell’ufficio in uno slancio d’altruismo eco energetico, cerca di capire se ricorda il turno di domani.
Osserva la sua auto nel parcheggio aziendale, sola, come lui, senza nessuna voglia di trovare compagnia.
Recensione al libro di Emiliano Bezzon