Io e il grande Hemingway abbiamo una cosa in comune, la scrittura.
Non soffermatevi sul fatto che lui era un grande e io non sono nessuno.
Entrambi abbiamo dedicato una parte della nostra vita alla creazione di storie, e abbiamo pensato che lo scrivere fosse parte integrante della nostra vita, due epoche diverse, due storie diverse, ma un denominatore comune.
Oggi ho terminato l'ennesimo Trebbi, che uscirà, nel migliore dei casi nel 2027, perché nel cassetto ce ne sono altri due.
Lo sto correggendo, ho scritto la sinossi, lo sto stampando, poi mia moglie lo leggerà e per me quella vicenda con i suoi personaggi e le sue dinamiche sarà chiusa.
Quando termino un romanzo ho sempre una sensazione di liberazione e di vuoto, liberazione perché fino a qualche mese fa non sapevo ancora come sarebbe finito il romanzo e se avesse un senso.
Vuoto perché comunque in questo romanzo ho dovuto, come sempre, faticare, costruendo la trama, i personaggi, gli intrecci, i dialoghi, dedicando a questo lavoro parte della mia vita, del mio tempo.
Alla fine è una questione di investimento.
Ne vale la pena?
Sono convinto di sì, il tempo è il mio unico vero patrimonio e da quando sono in pensione è diventato ancora più prezioso.
Scrivere e soprattutto creare mi fa sentire vivo, dà un senso alle mie giornate e mi consola nei momenti più difficili.
Se non riesco a scrivere significa che la vita mi sta assediando con i suoi crucci e terminare un lavoro è un po' come avere sconfitto i brutti pensieri e vinto una partita a scacchi con la morte.