sabato 29 marzo 2014

the sessions



La toccante pellicola con John Hawkes e Helen Hunt racconta di un uomo relegato a vivere in un polmone d'acciaio, che decide di provare a soddisfare le sue pulsioni sessuali. Appuntamento il 27 marzo in prima tv alle 21.10

Fino a qui la vicenda che nasce da una storia vera, e alcune riflessioni parallele fatte da uno come me che ha lavorato a contatto con la disabilità per molti anni. Questo personaggio interpretato in maniera magistrale da
John Hawkes    è un uomo che non ha mai avuto molto dalla vita condizionato dalla sua malattia e non solo anche da una forte educazione cattolica, ma riesce proprio nel momento in cui deve tirare le somme della sua esistenza, a trovare l'amore, quello vero, fisico, totale, quello che è possibile realizzare solo in un rapporto autentico con un altro essere umano. Scopre il sesso proprio quando ormai non sperava più di potere avere un qualsiasi rapporto, e scopre di potere amare e essere ricambiato, nonostante la sua condizione di grande disabilità.
E' un bel film, ma soprattutto è la storia di un sogno realizzato, è una vicenda che dovrebbe servire da monito per ognuno di noi, noi esseri normodotati e spesso infelici proprio perché appagati, noi che spesso diamo per scontato il nostro corpo, e che proprio per questo motivo ci dimentichiamo di usarlo, di donargli la giusta dose di felicità, noi che conduciamo spesso vite strascicate dietro a orari di lavoro, e quotidiani non certo afrodisiaci. Sono convinto che non bisogna permettere alla nostra mente e al nostro corpo di addormentarsi, proprio perché, come ci insegna il personaggio del film, la vita è un'esperienza velocissima e a termine e c'è sempre la possibilità per ognuno di noi di vivere una vita e una sessualità appagante. Dallo slancio vitale, dal desiderio di condividere non può che derivare un senso compiuto alle nostre vite quindi non diamoci mai per scontati  e viviamo, fino all'ultimo, nel più piacevole dei modi.
bel film, bel messaggio, su Sky

lunedì 24 marzo 2014

Cheever, I racconti



John Cheever 1912 –  1982 è stato uno scrittore americano, e ho appena terminato la lettura della raccolta di racconti della quale potete vedere la copertina sopra, un libro di 828 pagine dove avrete modo  di conoscere lo scrittore, e chi ama il racconto  non può perdersi questo libro.
John Cheever incarna lo scrittore che più di chiunque altro in questo momento della mia vita esprime il disagio esistenziale  dell'uomo occidentale costretto a fare i conti con le contraddizioni del nostro modello sociale.
Il suo approccio linguistico, i temi sviluppati nei racconti, e gli stessi dialoghi sono, pure a distanza di anni, ancora attuali, proprio perché alcune dinamiche rimangono tuttora irrisolte e nascono dalla convivenza forzata, dalla nevrosi delle grandi città, dal consumismo sfrenato e dall'impossibilità, per l'uomo occidentale, di privarsi dei privilegi sociali ed economici tipici del nostro mondo.
La tipica famiglia americana modello mulino bianco dove tutto appare come perfetto e immutabile, con i  giardini  curati e i barbecue del fine settimana, nei racconti di Cheever viene stravolta  e svelata nella sua vera essenza ed emergono le violenze, i rapporti sbilanciati, la miseria celata come nascondere la polvere sotto lo zerbino, e l'autenticità dei personaggi, la crudezza delle descrizioni fa di questi racconti uno spaccato autentico di realismo e nello stesso tempo una dimostrazione lucida di grande letteratura.
Rimane l'inquietante interrogativo, è necessario condurre una vita disperata e alcolizzata come quella di Cheever per diventare narratori  autentici? Spero e credo di no, ciò che sto perseguendo  in questo momento è arrivare a esplicitare il personaggio, scavando dentro di lui, mostrandolo nei suoi lati più oscuri e in quelli più alti. La commedia umana è l'opera più nera e più celeste che uno scrittore possa realizzare e Cheever rimane per me un grande modello .

I racconti, John Cheever , Feltrinelli, 828 pagine, euro 40, ma in rete lo pagate meno.


mercoledì 19 marzo 2014

educazione siberiana




Ho visto fra ieri e oggi Educazione siberiana di Salvatores,  devo premettere due cose:
Non mi piacciono tutti i film di Salvatores e uno per tutti che davvero non mi è piaciuto è Come Dio comanda  tratto dal romanzo di Ammaniti che invece mi è piaciuto molto.
Salvatores ha questa caratteristica in alcuni suoi film le scene sono buie, il buio come scelta stilistica, forse, o non saprei come altro definirlo, e inoltre sceglie di trasporre romanzi difficili, e non tutti i romanzi sono adatti a diventare immagini, meglio lasciarli nelle menti dei lettori con il film che si sono immaginati leggendoli.
Detto ciò ... seconda cosa, non ho letto il romanzo, soprattutto perché i grandi successi di vendita mi lasciano sempre un po' dubbioso, e poi perché avevo sentito da qualche parte che il romanzo non era poi così veritiero come sembrava.
Il film mi è piaciuto, pur non entusiasmandomi, mi sono piaciuti gli attori protagonisti, giovani e grintosi, e il grande Malkovich che qui interpreta il capostipite di una famiglia criminale.
Alcuni anni fa un film come questo mi avrebbe fatto vibrare di eccitazione, un paese dominato da criminali, con un loro codice d'onore in lotta contro i potenti, i ricchi e i poliziotti, una razza guerriera dura e pura con regole semplici, l'onore, il rifiuto della ricchezza, l'amore per i più deboli.
Una bella favola.
Penso ai bambini uccisi dalla malavita in questi giorni in Italia e arrivo alla conclusione che i criminali non possono essere uomini d'onore sono criminali e basta, ma il film è bello perché cavalca l'ideale di una coerenza inarrivabile, belle alcune affermazioni del nonno:
i malati di mente sono quelli voluti da Dio e devono essere protetti dalla tribù.
Molto bello il personaggio femminile, affascinante la teoria dei tatuaggi come una sorta di mappa esistenziale del tatuato, il corpo come sede della propria storia disegnata, oltre che vissuta.
Film gradevole, girato in una freddissima terra dove ora esplodono le contraddizioni di sempre.
Su Sky

giovedì 13 marzo 2014

la grande bellezza




Questa mattina per strada, mentre ero fermo sui viali imbottigliato dentro la mia macchinetta nel traffico convulso delle otto e trenta, mentre mi chiedevo perché tutta quella gente era in strada a rompere le scatole a me e non a lavorare, ho visto un cieco, con il suo lungo bastone bianco sul marciapiede. Cercava di raggiungere il suo obiettivo e ho pensato che lui in questo modello di società tutto incentrato sulle esigenze del singolo, era davvero in svantaggio, anche nella sociale e socievole Bologna fra marciapiedi ingombri di ostacoli, fra  buche e  feci animali eccetera eccetera.
Poi oggi ho guardato La grande bellezza e adesso penso che lui non potrà vederlo, al massimo potrà ascoltare i dialoghi e la musica che sto ancora gustando mentre scrivo.
Non è vero, come diceva Moretti in un film, che per parlare di cinema bisogna conoscerlo bene, il cinema, come la narrativa, sono strumenti attraverso i quali l'autore racconta cose.
La cosa importante è quanto riesce ad arrivare, quanto riesce a cogliere il segno, e ancora una volta è tutto molto soggettivo non trovate?
A proposito di scoperte io ho ritrovato Roma, città che a me piace particolarmente, senza nessun motivo storico, politico, culturale, ma semplicemente perché è una bellissima città che ho visitato in alcuni momenti importanti della mia vita e sempre come pareva a me, percorrendola a piedi nei luoghi più interessanti  del centro storico, perché una prima cosa mi accomuna al personaggio del film, arrivato alla soglia dei 55 anni, in anticipo sul personaggio, sono consapevole insieme a lui di non avere nessuna voglia di perdere tempo a fare cose che non mi va di fare.
La differenza sostanziale fra me  e lui non è solo anagrafica ma sociale, io sono ancora costretto a fare tante cose anche se spesso non mi va, perché devo lavorare per campare.
Ma torniamo al film, come dicevo una Roma da togliere il fiato, vista dall'attico del protagonista a una manciata di metri dal Colosseo, una Roma che rimane negli occhi nelle ultime sequenze percorse dai titoli di coda, girati sul Tevere, o una Roma sempre vista con gli occhi del protagonista fra gente che corre sulle sponde del fiume.
Un'altra cosa importante del film è la musica, la sto ascoltando in cuffia anche ora e senza perdere tempo a capire di chi è, entra dentro insieme alle immagini e si incolla a quella parte del mio cervello che può ancora capire, guardando e  ascoltando, se un film gli piace oppure no.
Poi c'è lui Jep (Servillo) un personaggio che sicuramente entrerà nella lunga carrellata di protagonisti della grande commedia italiana, e non voglio assimilarlo ai grandi attori che interpretarono I vitelloni
anche perché il re della mondanità romana è in crisi in questa capitale del nulla collettivo dove nessuno si muove in una direzione sensata, come dice lui stesso citando i loro magnifici trenini alle feste che non vanno da nessuna parte.
Ma non voglio nemmeno addentrarmi in un'analisi del film perché non mi frega nulla di capirlo, o fare una parafrasi del testo. Dico solamente che la città, le musiche e i personaggi mi sono arrivati, e alla fine del film so che dovrò rivederlo per riascoltare i dialoghi e capire meglio alcuni passaggi, ma ora a caldo, posso solo dire che mi è piaciuto, senza nessun altro vincolo o pretesa, perché come dicevo all'inizio, un film, un brano musicale, un libro, devono lasciare una sensazione, devono lasciare una traccia, un segno.
La prossima volta che passerò per Roma, se mai capiterà, magari andrò a cercare Jep Gambardella, lui conosce tutti, (anche Venditti), magari riesce a piazzarmi un romanzo nel posto giusto, perché in questa nostra società che si sta sgretolando allegramente, non c'è posto per nessuno, oppure c'è posto per tutti, basta conoscere le persone giuste.

lunedì 10 marzo 2014

the sound of silence




Ciao oscurità, vecchia amica mia 
son venuto per parlare ancora con te 
perchè una visione strisciando senza far rumore 
ha sparso i suoi semi mentre stavo dormendo 
E la visione 
così piantata nel mio cervello, 
rimane ancora 
nel suono del silenzio 

Questo è l'inizio della canzone tradotta di Simon e Garfunkel che vide la luce il 10 marzo del 1964. 
Io avevo cinque anni e solo molto tempo dopo mi sarei innamorato del film che ebbe questo brano nella colonna sonora Il laureato  che non è solo un film americano dove con grande capacità critica l'autore si interrogava in maniera crudele sulla middle class americana, quella delle grigliate nei giardini tutti uguali, quella della perfezione fittizia, delle stragi familiari annunciate, di un sogno americano tanto effimero quanto destinato a svanire, fra la guerra del Vietnam e le contraddizioni di sempre.
Quel film, che arrivò sul grande schermo nel 1967, descriveva un disagio giovanile delle  nuove generazioni, ma quel disagio arrivò fino a me, che lo vidi molti anni dopo.
Anche la mia generazione ha sospirato dietro le vicende del giovane Dustin Hoffman colpevole di essersi laureato in una società dominata dall'apparenza dei luoghi comuni e dalla concretezza dei sotterfugi fra donne alcolizzate e insoddisfatte e uomini indaffarati e distratti.
La storia d'amore di Dustin Hoffman e di una incredibile, per i tempi, Katharine Ross che ritrovai nel successivo Butch  Cassidy trovandola nuovamente splendida e seducente, è una storia fuori da ogni tempo e ogni rotta, dove trionfava il sogno di diverse generazioni, quello della realizzazione dell'utopia, del superamento delle differenze, della fuga d'amore, fuggendo da una società tanto borghese quanto effimera.
Non so quante volte ho visto quel film e quante volte ho ascoltato l'intera colonna sonora, so che in quel periodo non ero né libero, né innamorato se non forse dell'idea stessa dell'amore.
Ma certi film,certi brani musicali, restano incastonati nel nostro cervello, e aiutano a riattivare le connessioni, quelle buone, e ti fanno capire che hai ancora un cervello, hai ancora la capacità di sognare, magico ed esclusivo patrimonio della giovinezza.


e la visione di quel periodo incredibile, 
così piantata nel mio cervello, 
rimane ancora 
nel suono del silenzio

mercoledì 5 marzo 2014

il giudice meschino




Ho visto la prima parte di questa fiction made in Rai Il giudice meschino non ho ancora visto la seconda parte quindi non so come finirà e non rischio di svelarvi nulla della trama.
Il giudice meschino è Zingaretti che a me piace molto, ho imparato ad apprezzarlo con la serie dedicata a Montalbano e sono affezionato alla sua immagine, in questa fiction interpreta il ruolo di un uomo superficiale che ama le donne e meno il lavoro di giudice e riscopre la passione per il suo lavoro dopo l'omicidio di un collega e amico interpretato da Gioele Dix, poi c'è la moglie di Zingaretti nella vita Luisa Ranieri che mi piace molto soprattutto come donna, e quindi c'erano tutti i presupposti per una fiction piacevole, quindi cosa non mi convince della storia?
Siamo  di fronte alla consueta vicenda truce, la ndrangheta da una parte e la giustizia coraggiosa dall'altra, però il tutto è, come direbbe il mio amico Fabrizio, didascalico, una sorta di lezione di morale  per le giovani generazioni. La mafia è crudele, è il male, e contro ogni forma di mafia c'è solo l'onestà e il coraggio delle forze dell'ordine che con dedizione e sprezzo del pericolo etc etc. Ma i giovani lo sanno già, lo sanno tutti come funzionano le cose, la realizzazione televisiva però pecca dal punto di vista stilistico, diciamo che non scorre in maniera armoniosa, come se il dovere condensare una vicenda in due parti abbia costretto gli sceneggiatori a scivolare velocemente sui personaggi, e così il giudice meschino è sì meschino e superficiale ma si capisce poco il perché, e si capisce poco il suo repentino  guizzo di orgoglio che lo riporta in prima linea, e i personaggi si passano il testimone senza quello che riesco a definire solo come pathos, non c'è una vera e propria emozione, tutto avviene velocemente senza un vero momento intenso, la prima parte si conclude con una scena drammatica, ma anche la scena e i possibili risvolti rimangono tipici della fiction italica.
Si parla di rifiuti tossici, di malavitosi crudeli, di guerra fra diverse famiglie per la conquista del territorio, fatti che nella realtà sono tanto frequenti quanto tragici. Quando si portano certi drammi in televisione con il giusto intento pedagogico di farci riflettere, non bisogna mai perdere di vista l'intensità dei personaggi, la loro credibilità, altrimenti tutto perde di spessore e rimane un semplice e poco efficace esercizio di stile.
Rimango in sospeso per quanto riguarda la seconda parte, se dovesse spostare la mia iniziale impressione ve lo dirò.

lunedì 3 marzo 2014

Salamander



Il Belgio questo sconosciuto, nel giorno dell' acclamazione della Grande bellezza, che dopo svariati anni riporta il cinema italiano all'Oscar, io scriverò due righe su questa fiction made in Belgio, soprattutto perché il film di Sorrentino non l'ho ancora visto e quindi non sono in grado di dire nulla. Sono contento del riconoscimento al nostro cinema anche se come scrivevo recentemente dietro Servillo come attore e Sorrentino come regista non rimane molto al momento in Italia, tralasciando Moretti che amo per un fatto quasi affettivo e che rimane per me regista e attore atipico.  Il nostro cinema langue, ma forse è solo una mia percezione, forse è un problema di miseria economica e morale.
Ma torniamo alla fiction belga Salamander, l'idea di partenza è intrigante e io l'ho usata almeno in due romanzi, l'idea del complotto l'ho sperimentata nel mio primo romanzo Bologna all'inferno e nell'ultimo Lupi neri su Bologna perché le grandi trame, quelle dove si muovono uomini neri con l'obiettivo di stravolgere un sistema  funzionano,  permettendo all'autore di lavorare  sull'attuale.
Salamander racconta una cosa analoga, si sviluppa nel piccolo Belgio, monarchia sconosciuta per me e fonda le radici della storia nella seconda guerra mondiale.
La storia regge, fra gli attori in realtà spicca principalmente il poliziotto Paul Gerardi che è  esteticamente l'unico attore ad avere un minimo di fascino in un cast, lasciatemelo dire, non particolarmente seducente se si esclude la ragazza che intepreta il ruolo della figlia del commissario.
Bellezza e fascino a parte la fiction funziona senza esaltare, regge le dodici puntate e alla fine riesce anche a ottenere il risultato di essere avvincente, rispondendo alla prima esigenza di una fiction d'azione, fare nascere nello spettatore la curiosità di capire come finirà.
Nonostante i suoi limiti rimane  un gradino sopra a una qualsiasi fiction italiana, e questo vi dà la misura del livello italiano attuale.
su Sky